La condivisione da sola non basta a fare la conciliazione. Vorrei partire da una constatazione semplice ma efficace, che spesso sfugge.

La conciliazione lavoro-vita privata è costituita da una serie di opportunità e di condizioni di contesto (servizi pubblici a prezzi calmierati e accessibili, flessibilità, smart working) che permettono al singolo individuo di avere un buon equilibrio tra i due tempi, tra i due ambiti, senza che uno prenda il sopravvento sull'altro. 

Questo della conciliazione non è un tema che riguarda solo i genitori, ma tocca tutti indistintamente, perché il senso della nostra vita non può coincidere e non deve coincidere con la nostra professione e per avere una vita piacevole e per potersi occupare di altro ci vogliono tempi e meccanismi che lo consentano. 

Il lavoro mangia vita è l'ostacolo da superare e l'equilibrio che si dovrebbe perseguire è un sistema che contempli tempi di vita e di lavoro che garantiscano il benessere dell'individuo. Quindi la conciliazione non è solo un affare di mamme e di papà, in pratica di chi è genitore, ma di figli, sorelle, di tutti. Perché con una popolazione che vive sempre più a lungo qualcuno dovrà occuparsi delle nuove età. 

La condivisione dei compiti di cura e delle attività da sola non serve a tenere dentro al mercato del lavoro le persone, a garantire una maggiore partecipazione delle donne in particolar modo, su cui ancora oggi pesa la maggior parte dei compiti di cura. Ci può essere condivisione, ma certi tempi (pensiamo ai tempi per raggiungere il lavoro, la mancanza di servizi e la loro distanza da casa e dal lavoro) e certi lavori (pensiamo ai turnisti o a chi lavora senza orari) proprio non coincideranno mai con un equilibrio e con una buona conciliazione. Questo vale per uomini e donne. 

Ci sono mamme single, chiediamoci: con chi dovrebbero condividere i loro compiti?
Ci sono mamme che non possono contare nemmeno sull'aiuto dei propri genitori o familiari.

Quindi la condivisione da sola (che implica l'interazione di uno o più soggetti e quindi non è una questione in capo a un solo individuo) non risolve quell'equilibrio vita-lavoro, lo risolve solo se esiste un partner o un familiare o una persona vicina che con te "condivide". La condivisione rischia di diventare un problema del singolo che deve attrezzarsi con una o più persone e se questo non è possibile il sistema non regge.
Invece, una politica di conciliazione implica un intervento pubblico che riequilibri in maniera diffusa e che assicuri pari opportunità e tutele per tutt*. 

Puoi avere un compagno che collabora al 100%, ma quando i tempi di lavoro non si conciliano con quelli dei servizi, della cura dei figli, degli anziani, ma anche semplicemente con il prendersi cura della propria persona e avere una vita privata che non sia annullata dal lavoro, forse dovremmo considerare altre leve.

La condivisione da sola non basta a fare la conciliazione 

Se vogliamo incidere non possiamo scaricare tutto sulla collaborazione e la condivisione tra due o più persone, perché questa catena potrebbe non esistere per tanti fattori. Ripeto, la conciliazione insiste su un unico individuo e fornirgli gli strumenti e i servizi di sostegno adeguati significa rendere quella persona autosufficiente, pienamente in grado di provvedere a mantenere un equilibrio soddisfacente e compatibile con i suoi desideri e benessere.

Questo è compito dello Stato, del pubblico, perché non possiamo lasciare che sia compito esclusivo della lungimiranza del datore di lavoro o dell'imprenditoria (che comunque ha bisogno di incentivi per mettere in atto politiche di conciliazione). Senza un’azione di riequilibrio e di incentivo centrale, non cambierà assolutamente niente.
Anzi, si creeranno sempre nuove discriminazioni, tanto c’è chi sarà disposto a rinunciare ai diritti in cambio delle briciole, salvo pentirsene quando si troverà a sua volta a dover far fronte ai problemi.
Certo sarebbe bello un impegno congiunto imprese-stato, ma se si lascia libertà di scelta su come e se applicare modelli virtuosi, il rischio è che solo pochi lavoratori abbiano condizioni di lavoro decenti e vantaggiose. 

Lo Stato non deve ritirarsi da ogni responsabilità e contare sui sistemi familiari. Poi certamente dobbiamo ragionare e spingere sulla necessità di andare verso una cultura della condivisione uomo-donna delle competenze, dei ruoli, dei compiti di cura dei familiari o della casa. Ma siccome il modello famiglia non è sempre quello classico, io mi pre-occupo di fornire soluzioni che sappiano aiutare anche i genitori single, o i figli che da soli si devono occupare di familiari non autosufficienti.

Non stiamo andando nella direzione giusta quando pensiamo di poter incrementare le nascite a suon di bonus bebè , senza guardare alle cause reali della denatalità. Non ci porta da nessuna parte questo incentivo fine a se stesso, che non cambia la struttura di contesto esistente. Si sottraggono risorse preziose a interventi strutturali e diffusi. Diamo servizi per la conciliazione e incentiviamo una vera e piena condivisione laddove possibile. Incentiviamo una genitorialità matura, consapevole e responsabile. Dovremmo superare la casualità e smetterla di privilegiare soluzioni semplicistiche.

Dobbiamo consentire alle donne di partecipare al mondo del lavoro, di restare al lavoro anche dopo la maternità o quando c'è un familiare da assistere. Per tutto questo ci vogliono servizi pubblici di qualità e accessibili a tutti.

Non lasciamo le donne da sole ad assumersi in toto i compiti di cura. I bonus sono pannicelli caldi.
Abbiamo bisogno di interventi che vadano a migliorare la qualità della vita e a riequilibrare i pesi dell'assistenza familiare. E forse dovremmo ampliare lo sguardo su che tipo di mercato del lavoro (e sulle forme contrattuali) hanno di fronte le persone in età fertile, sulle trasformazioni e sugli impatti di esse sul modello di produzione (si pensi alla gig economy). Forse prima di varare certi provvedimenti dovrebbero ascoltarci di più, come dicevo qui: https://simonasforza.wordpress.com/2016/04/21/di-cosa-abbiamo-veramente-bisogno/

Se non sappiamo leggere la realtà contemporanea, le variabili, che senso ha guardare solo al risultato finale? Siamo veramente convinti che con un bonus si facciano più figli e che gli si assicuri non solo un pasto, ma educazione, valori, attenzioni, cura a 360°? Il crac demografico non può essere considerato come un elemento separato dal resto. L'esercizio di negare in toto o in parte la realtà ci ha stancati. 

Infine, riprendo Silvia Federici, che ci porta a interrogarci sul valore del lavoro domiciliare e sul fatto che crescere figli o occuparsi della famiglia non può essere un "affare privato", ma deve avere un respiro collettivo, comunitario, pubblico, che salvaguardi gli interessi di tutte le parti coinvolte:

“Se riteniamo che il lavoro domiciliare non sia vero lavoro, che la premessa del passaggio da assistenza sociale generale ad assistenza da fornire solo a chi lavora sia corretta, allora nessuno è titolato ad avere un supporto istituzionale per crearsi una famiglia. E quindi lo stato ha ragione quando afferma che crescere i figli è una responsabilità personale e che se vogliamo centri di cura diurni, per esempio, dobbiamo pagarceli. Riassumendo, l’approccio è di insistere che qualsiasi richiesta e strategia che non interessi tutte le donne e, prima di tutto, quelle che sono state più sfruttate e discriminate, qualsiasi approccio che non mini le gerarchie che sono state costruite tra noi, è fallimentare, e mette a rischio qualsiasi vantaggio abbiamo potuto momentaneamente ottenere”.

 

Qui un pezzo che avevo scritto su Mammeonline relativamente a queste tematiche.

 

Articolo di Simona Sforza

 

 

Ritratto di Simona Sforza

Posted by Simona Sforza

Blogger, femminista e attivista politica. Pugliese trapiantata al nord. Felicemente mamma e moglie. Laureata in scienze politiche, con tesi in filosofia politica. La scrittura e le parole sono sempre state la sua passione: si occupa principalmente di questioni di genere, con particolare attenzione alle tematiche del lavoro, della salute e dei diritti.