I bambini adottati nella scuola italiana spesso vengono considerati secondo due categorie macroscopiche: quella dell'intercultura e quella dell'handicap. Intercultura quando si tratta di affrontare il tema delle “differenze”, handicap quando si tratta di difficoltà nell'apprendere e nel vivere a scuola. Entrambe le categorie non sono sempre pertinenti alla realtà dei bambini adottati.

Sia l’Istituto degli Innocenti che la Commissione Adozioni Internazionali hanno, in questi anni, dedicato al tema del vissuto scolastico dei bambini e delle bambine adottati, attenzioni e lavoro con convegni, corsi di formazione studi e libri. Sempre più le associazioni famigliari e gli enti autorizzati si sono trovati coinvolti in analogo lavoro anche su richiesta delle famiglie che ad essi si rivolgevano. Sono stati aperti sportelli di sostegno per le famiglie e gli insegnanti. Sono stati avviati percorsi di sensibilizzazione per i docenti e attivati strumenti di confronto con il mondo della Scuola. Molti sono gli operatori esperti (psicologi, pedagogisti, assistenti sociali, insegnanti) che si sono attivati.

Chi ha che fare con le famiglie adottive ed i loro bambini e ragazzi sa che non si può dar nulla per scontato quando si tratta di trovare la classe giusta per un bambino arrivato in Italia per adozione internazionale, soprattutto se da poco. Basti pensare a quanto spesso manchino informazioni approfondite (o anche non approfondite) sulle storie dei bambini prima del loro arrivo in Italia. Certamente, il più delle volte mancano indicazioni dettagliate sulle eventuali frequenze scolastiche o sui livelli di apprendimento dei bambini e dei ragazzi.

In vari paesi esteri, fra l’altro, l'ingresso alla primaria avviene in tempi diversi da quelli ormai preferiti in Italia. Come risulta da "I sistemi scolastici nei paesi di provenienza dei bambini adottati" edito dall'Istituto degli Innocenti e prodotto da CAI, Ministero Pari Opportunità, Presidenza del Consiglio dei Ministri, nell'anno 2005, nella Federazione Russa l'inizio delle elementari è indicato a 6/7 anni con la precisazione che la maggior parte dei bambini inizia a 7 anni. Per l'Ucraina è ugualmente indicata in 6/7 anni specificando che l'oscillazione è dovuta alla riforma in atto. Un altro dato interessante che emerge da un'analisi delle scuole di quei paesi è che, soprattutto per le fasce povere della popolazione, spesso è in vigore il pluriclasse. I bambini di varie età stanno in una stessa classe. Stare con bambini di età diverse può essere un problema dei nostri bambini, spesso per i bambini adottati (ad esempio in Etiopia o in Brasile) costituisce una normalità.
Anche solo queste informazioni di tipo culturale spiegano quanto diversificate possano essere le esperienze dei bambini adottati internazionalmente.

I bambini che arrivano per adozione internazionale, hanno bisogno di un lungo periodo di acclimatamento in famiglia e nel nuovo paese. Periodo necessario, non tanto per rafforzare la competenza linguistica, quanto per acquisire le competenze socio-affettive necessarie per un adeguato inserimento sociale. La letteratura e gli studi in materia di adozione richiamano sempre alla cautela nel rispetto dei tempi dei bambini e del loro bisogno di ricostruire una personalità spesso frammentata acquisendo almeno in parte la sicurezza e l’equilibrio emotivo necessari, per poter riconoscere appieno le nuove figure genitoriali, per iniziare un percorso di riconquista di un’infanzia perduta.

L'inserimento a scuola rappresenta una tappa fondamentale per ogni bambino, e per i bambini adottati rappresenta una tappa a cui dedicare molta attenzione sia per gli aspetti relativi all’apprendimento che per quelli di tipo relazionale con gli insegnanti e con i compagni. Troppo spesso emergono situazioni di disagio in cui i bambini tirano fuori il proprio malessere sul piano del comportamento, innescando difficoltà di relazione coi propri compagni e con i propri insegnanti. Difficoltà che talvolta si accompagnano a criticità nell'apprendimento che vengono quindi ad incidere negativamente sull'autostima dei piccoli innescando una sorta di circolo vizioso.

E’ per questi motivi che, in questi giorni, un folto gruppo di associazioni di volontariato, famiglie, enti autorizzati alle adozioni internazionali ed operatori attivi nel campo dell’adozione, hanno richiesto un incontro al Ministro Mariastella Gelmini.
Motivo della richiesta, la necessità di avviare un confronto e un dialogo sul tema del benessere scolastico dei bambini adottati.

“In particolare –si legge nell’invito al Ministro- desideriamo sollecitare un confronto sul tema dell’inserimento dei bambini e delle bambine adottati a scuola con particolare riferimento al passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria e al primo inserimento scolastico dei bambini”.

Allegato all’invito un articolato Dossier nel quale vengono messe in evidenza le maggiori problematicità riscontrate. Una fra tutte, l’impossibilità di rinviare l’inserimento di un bambino alla scuola elementare se non dietro presentazione di un certificato di handicap; un provvedimento inaccettabile che non tiene assolutamente conto del fatto che un bambino appena arrivato in Italia ha generalmente bisogno di un adeguato periodo per riuscire a darsi un senso di ciò che gli sta accadendo e per riuscire a decodificare le nuove realtà sociali e affettive. Un provvedimento che ha messo in difficoltà varie famiglie e vari bambini.

La normativa che riguarda il passaggio dalla scuola dell'infanzia alla scuola primaria quando si occupa di “permanenza” alla scuola dell'infanzia oltre i sei anni si occupa solo ed esclusivamente di handicap. E per handicap la legge è chiara: “E' persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione.” (Legge 5 febbraio 1992, n. 104 "Legge - quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate." Pubblicata in G. U. 17 febbraio 1992, n. 39, S.O.)

Ci sono bambini che arrivano per adozione internazionale che hanno seri problemi, disabilità, handicaps, ma la maggior parte di loro non ne ha. E non si può e non si deve certificare il falso nei loro confronti. Tuttavia, al tempo stesso, molti di loro vivono una situazione complessa e difficile e si trovano in situazioni di “svantaggio”.

Proviamo dunque ad immedesimarci in un bambino di 6 anni compiuti che arrivi in Italia per adozione internazionale.

Non è figlio. Non lo è ancora spesso neanche per legge. Ma soprattutto non lo è negli affetti. Se è stato abbandonato alla nascita e subito istituzionalizzato non ha nessun codice affettivo o emotivo che gli lasci percepire cosa voglia dire essere figlio. Non è mai stato al centro dell'universo di nessuno. Non è mai stato realmente “guardato” e “visto”. E' uno fra i tanti. Molti non hanno ricevuto gli abbracci e il contatto fisico necessari a sviluppare una percezione del proprio corpo e per questo la loro motricità è diversa, differente da quella dei più. Non ha interiorizzato quella che Bowlby definisce una “base sicura”. Non sa (interiormente) su chi contare.

Ha un passato difficile, emotivamente impegnativo. C'è sempre un abbandono alla base di qualsiasi adozione, spesso c'è una precoce istituzionalizzazione, talvolta ci sono passaggi plurimi (famiglia, istituti, affidi). Talvolta ci sono abusi. Spesso maltrattamenti subiti o visti. Morti. Traumi.

E' piccolo, non sa pienamente cosa gli stia capitando. Le incertezze dell'adozione internazionale fanno si che in genere i bambini non siano preparati all'adozione. Fanno un salto nel vuoto, dandosi a perfetti estranei, viaggiando verso l'ignoto, accettando un mondo nuovo che spesso li sovraccarica e sovrasta di aspettative affettive. Non appartiene ancora a questo nuovo mondo. Non lo sa. Non ne sa i colori, i sapori, le musiche, le filastrocche, le ninnananne. Non ne sa il clima o le stagioni. Non ne sa i modi di amarsi. Non appartiene qui, non appartiene più al suo prima. Non sa.

Chi di noi ce la farebbe? I bambini ce la fanno molto meglio di noi. Perché sono plastici. Perché sono coraggiosi. Perché si fidano (nonostante tutto) di noi. Perché sono resilienti. Noi non ce la faremmo. O forse si, ma non sappiamo a che prezzo.  Anche i bambini pagano un prezzo. Lo pagano anche a scuola, quando nella realtà di tutti giorni scoprono un mondo che li fa sentire a disagio, li frustra, evidenzia le loro mancanze piuttosto che le loro risorse.

Ci sono bambini che indubbiamente, pur non avendo handicaps reali, hanno difficoltà legate al linguaggio. Non perché debbono cambiare lingua, ma perché all'inizio non hanno avuto una madre che gliela insegnasse una qualsiasi lingua. Ci sono bambini che di fatto si comportano in modo iperattivo, che hanno disturbi di attenzione, che non riescono se non a fatica ad interagire socialmente.

Loro non sono arrivati alla scuola primaria col loro bagaglio di attenzioni e cure riservate in genere ai bambini nati in Italia e con una famiglia amorevole accanto. Il loro bagaglio contiene altro. Cosa vogliamo farne? E' una valigia che contiene tanto, perché tante sono le loro risorse. Cosa vogliamo fare col resto?

Per tutti questi motivi, per provare a tentare di andare incontro a tutti questi bisogni, tanti hanno deciso di attivarsi e di provare a lavorare su questo tema insieme ed assieme alla Scuola come istituzione. L’augurio è che tutto questo sforzo diventi un lavoro fruttuoso.

Il Dossier (che contiene anche tutti i firmatari) è disponibile sul sito dell’Associazione Genitori si diventa Onlus che ha dato inizio all’iniziativa e che la sta seguendo assieme ai tanti che hanno aderito.
 

Articolo di Anna Guerrieri
Associazione Genitori si Diventa Onlus

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